25 Settembre 2024

Affrontare la Transcontinental Race da (quasi) neofita: per Alessandro Gober è Mission Possible

Il segreto sta nella scelta delle priorità. Il comfort e l’efficienza vengono prima della performance.

Alessandro Gober, trent’anni, di Rovereto, completa la Transcontinental Race, competizione ciclistica unsupported che prevede un tragitto totale di 4000 km attraverso l’Europa. Alessandro parte dalla francese Roubaix e arriva fino a Istanbul in 14 giorni, 13 ore e 33 minuti, con la sola forza di polpacci e tanta organizzazione. Un’impresa non da tutti, da cui esce arricchito. Ci parla della sua preparazione (ha scoperto il ciclismo Gravel e l’Ultracycling solo quest’anno), di ciò che porta con sé dopo la gare e dei suoi piani per il futuro, regalandoci anche qualche consiglio. 

Come è iniziata la tua passione per il gravel biking e cosa ti ha attratto in particolare, rispetto ad altre discipline ciclistiche?

Ho fatto la mia prima esperienza in viaggio con degli amici, tre anni fa. Eravamo andati al rifugio Lausen durante un evento cicloturistico. Ho sempre fatto tanta attività sportiva e, dato che amo viaggiare, in quel momento ho scoperto l’unione delle due cose. Così si è acceso l’interesse per questo mondo. Qualche mese dopo, mi è venuta l’idea di andare a Capo Nord in bicicletta. Ho preso in prestito la Rampichino di mio padre e sono partito dall’Austria con degli amici. Lo definirei il mio battesimo del fuoco.

Che sfide hai affrontato durante le competizioni gravel?

Quest’anno ho fatto alcune esperienze brevi per approcciarmi alla pratica, per entrare in sintonia con la mia Gravel. Prima del 2024, non avevo mai fatto gare ufficiali, ero fermo alle esperienze di cicloturismo. Mi sono accorto subito che la prima difficoltà era rispettare le scadenze, i tempi. Con il cicloturismo, quando sei stanco, ti fermi e riposi. In una gara gravel, invece, devi portare al limite la tua tolleranza all’assenza di sonno. Poi c’è la resistenza, perché non ero abituato a stare diciassette ore sul sellino. Ho dovuto capire quali fossero i miei limiti a livello alimentare e quanto cibo riuscissi ad ingerire in una giornata per non andare in deficit calorico. Forse, però, la sfida più importante è stata l’organizzazione. Credo che la preparazione atletica sia certamente la base essenziale per terminare l’esperienza, ma l’essenziale è essere mentalmente pronti ad affrontare le difficoltà del viaggio.

Puoi raccontarci un ricordo, un dettaglio che porti ancora nel cuore, legato alle esperienze fatte finora?

I ricordi legati al cicloturismo sono soprattutto quelli dei paesaggi, dei “quadri naturali” che incontravo continuamente, in particolare durante la mia prima sfida verso Capo Nord. Nella Transcontinental, invece, ciò che mi ha colpito di più sono state le persone. Quando ti vedono stanco e vulnerabile, emerge un’empatia che non avevo mai conosciuto prima. Ad esempio, in Kosovo ero senza contanti, senza nessuno che capisse l’inglese e senza un bancomat in vista. Ho comunicato a gesti che avevo fame e sete. In due secondi, degli sconosciuti mi hanno portato a mangiare in un ristorante. Oppure mi viene in mente un signore, in Turchia, a cui avevo chiesto di potermi fermare a dormire nel suo campo e continuava ad insistere per ospitarmi in casa. Non assisti a questi slanci di generosità, nel quotidiano.

Come si affronta una gara gravel così dura? Hai dei consigli per chi si avvicina a questo mondo?

Per quella che è la mia esperienza, breve ma intensa, io prediligo il comfort, rispetto alla performance. Avere un chilo in più di peso nelle borse può diminuire la tua velocità, ma garantirti un viaggio più comodo o un riposo più rapido. Durante la Transcontinental, mi sono pentito di non aver preso dei copertoni più larghi, perché mi aspettavo molto meno sterrato. Probabilmente sarei stato più lento, ma mi sarei affaticato molto meno. Oltre al comfort, l’altra priorità è l’efficienza. Avere le borse giuste per contenere cibo e acqua e delle tasche raggiungibili per poter prendere quello che ti serve stando in sella fa la differenza. Per me era un sollievo riuscire a lavarmi i denti senza smettere di pedalare, proprio perché avevo tutto a portata di mano. Dunque, al primo posto, comfort ed efficienza. Solo dopo si pensa alla performance.

Qual è il tuo prossimo obiettivo come ciclista gravel?

Io e la mia compagna ci stiamo trasferendo in Nuova Zelanda, dove staremo  per un paio di mesi. Quello che mi piacerebbe è, non potendo affrontare una programmazione a livello

competitivo nel prossimo periodo, sfruttare la bicicletta per esplorare il più possibile questo nuovo territorio. Ho visto che c’è un tour dove è possibile fare la traversata dell’Isola del Nord e dell’Isola del Sud, che è molto offroad, con circa il 50% di sterrato. Vorrei provarci l’anno prossimo, a gennaio. Sicuramente non è una competizione, quindi sarà un’esperienza completamente diversa, ma è bello poter differenziare e stare in sella alla propria bicicletta.

Il Gravel è noto per avere una comunità molto unita. Come descriveresti l’atmosfera delle gare gravel e il rapporto con gli altri ciclisti?

Credo che questa sia stata una delle cose più sorprendenti poiché, in passato, ho fatto tante competizioni in diverse discipline (nel mio caso, nella kickboxing, un ambiente molto più competitivo e poco aggregante). Durante la Transcontinental, nonostante fosse una gara unsupported dove non ci si poteva aiutare l’uno con l’altro, c’era molto spirito di condivisione e apprensione verso gli altri. Tutti gli atleti avevano a cuore il benessere degli avversari. Prima e dopo l’evento, ci sono stati momenti di condivisione veramente speciali con persone che, fino a poco prima, erano dei completi sconosciuti. È uno degli aspetti che più mi fa amare il gravel.

Marco Modugno

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