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14 Agosto 2024

Dal ciclismo professionistico ad Hubbici, senza peli sulla lingua

Intervista a Marco Canola, professionista del ciclismo e imprenditore.

Classe 1988, Marco Canola è un ciclista italiano che ha iniziato la carriera professionistica nel 2012 con la squadra Colnago-CSF Inox. Nel 2014 ha ottenuto la sua vittoria più prestigiosa, vincendo una tappa al Giro d’Italia. Ha corso, poi, per la Nippo-Vini Fantini, vincendo la Volta Limburg Classic e la Japan Cup. Ha avuto successo in vari tour asiatici e statunitensi, concludendo la carriera nel 2022 con la Gazprom-RusVelo a causa della guerra in Ucraina. Ora si dedica a Hubbici, una piattaforma online e centro atletico, dove condivide la sua esperienza per aiutare appassionati di ciclismo. Per lui è una seconda vita, ma ha ancora molto da dire sul mondo agonistico.

Marco, è un piacere. Partiamo da questa tua nuova avventura:  come nasce Hubbici?

Uscendo dal mondo agonistico, ho scoperto un’altra realtà oltre il professionismo. Mi sono appassionato a queste persone, ho iniziato a dare consigli su come posizionarsi in strada e usare il corpo nella guida, non solo su come allenarsi atleticamente. Da queste piccole cose è nata Hubbici, un centro per appassionati per riscoprire il ciclismo. Siamo partiti come piattaforma digitale e poi abbiamo aperto un centro in provincia di Vicenza, ad Altavilla Vicentina, dove trattiamo temi principi del ciclismo, come il bike fitting, il primo scalino da affrontare per ogni ciclista.

Nello specifico, come fai riscoprire il ciclismo a chi si affida ad Hubbici? 

Forniamo corsi che spiegano come stare bene fisicamente e allenarsi, basi per essere sicuri di sé in bici. L’obiettivo è creare una grande community. Facciamo in modo che la gente conosca chi sta dall’altra parte dello schermo e poi offriamo esperienze intense con social ride ed eventi speciali. Forniamo supporto, sia in palestra che in bici e un nutrizionista a disposizione dei clienti interessati. Organizziamo, inoltre, tour che regalano emozioni. L’anno scorso al Giro d’Italia abbiamo vissuto momenti indimenticabili, pedalando nel percorso finale e godendoci l’hospitality. Abbiamo visto Filippo Zana seguito dagli altri corridori. Ero circondato da ragazzi così emozionati che ho riscoperto l’essere tifoso.

Ora che ti sei affrancato dal ciclismo agonistico, posso chiederti un’opinione critica su quel mondo? 

Il corridore è sempre il centro, perché senza di lui non c’è spettacolo. È vero che ci sono team, sponsor, direttori sportivi, meccanici, massaggiatori e nutrizionisti, ma è il corridore che paga le conseguenze del fallimento. L’atleta viene messo alla gogna prima degli altri, senza considerare che è sensibile e umano. Tifosi, team e federazione internazionale dovrebbero capirlo. L’Unione Ciclistica Internazionale ha un sistema elettivo che mantiene il potere tra pochi, decidendo chi deve salire. Questo problema si estende anche agli atleti Junior, che a quindici, sedici, diciassette anni hanno bisogno di tempo per formarsi e capire che non tutti attorno a loro agiscono per il loro bene.

Come si cambia l’ambiente agonistico, se è così tossico come lo descrivi?

Bisogna avere pazienza, perché le cose cambieranno prima o poi. Serve un gruppo di persone coraggiose, in grado di prendere decisioni e seguire una strada diversa da quella dell’Unione Ciclistica Internazionale, che oggi ha potere decisionale su tutto. Nessuno ha mai pensato di creare una federazione alternativa, che non interferisca nei ritiri delle squadre, nei training camp o alle corse.

E il mondo Gravel? Lo trovi vicino alla realtà che stai costruendo?

Secondo me il Gravel ha più appassionati che non gareggiano. Non so se rendere così competitivo questo settore, come sta accadendo, sia la strada giusta. Da quando è iniziato il campionato del mondo, con i professionisti che partecipano alle Gravel Series, si è alzato lo standard. Non credo che gli appassionati seguiranno le gare Gravel come quelle su strada, o come il Cross Country. Il Gravel diventa di livello troppo alto, uno standard troppo alto. Dovrebbe rimanere più cicloturistico, qualcosa da godersi in compagnia. I professionisti possono gareggiare, va benissimo, ma si dovrebbe spingere affinché diventino guide o escursionisti per gruppi e community, così da dare un buon esempio e trasmettere la propria passione. Questi atleti, insomma, dovrebbero fare da apripista ed evitare che il Gravel venga snaturato e perda la sua vera essenza.

Parlaci dei bike tour che organizzi. Ricordano la vera natura Gravel che menzioni?

Sì e sono la cosa che preferisco, perché con i bike tour instauri un rapporto davvero molto bello con l’ospite. Verso sera, dopo ore di pedalate, ti dedichi a lui e gli concedi un po’ del tuo tempo. Ti lasci andare e nascono dei bellissimi rapporti. Pur avendo un team che organizza queste gite, cerchiamo di non far pesare l’organizzazione al cliente, che deve solo pensare a pedalare per i sentieri e godersi l’hotel. Il meccanico che si occupa delle bici, lo studio dell’itinerario, tutto è invisibile. Come ti dicevo, l’anno scorso sono tornato al Giro d’Italia, ovviamente non come corridore, ma per un tour. Un giorno ho fatto fermare chi si era iscritto per l’esperienza, avevamo l’hotel proprio sul percorso dell’arrivo finale, lungo l’ultima salita. Dopo Zana è arrivato Scaroni, ci siamo fermati per un abbraccio ed è scappata qualche lacrima. Immagina i clienti dietro di me che pensavano di essere finiti in un posto a metà tra “Stranamore” e “C’è posta per te”. Sono tutte esperienze uniche, che la bici può regalare, se la si vive nella giusta maniera.

Marco Modugno

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