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9 Giugno 2023

Dino Lanzaretti: beyond the impossible (parte 1)

Vi siete mai sentiti intrappolati nella comfort zone? Ecco come una bicicletta può spezzare le catene della quotidianità.

Da progettista meccanico a cicloviaggiatore, da uno stipendio sicuro ad arricchirsi con le emozioni delle persone intorno al mondo. Questa è la storia di Dino Lanzaretti che, partito da Schio con lo zaino in spalla e spogliatosi di qualsiasi sicurezza, ha raggiunto prima il sud America, poi l’India e il Nepal. Affascinato dalle storie degli sherpa, si innamora della montagna e inizia a scalare attraversando anche lo Hielo Continetal, il ghiacciaio più vasto del pianeta. Nel 2005 gli viene regalata una bici da 50 euro. Sulla sua sella percorre 8000 km in Asia. Si innamora perdutamente delle due ruote, che considera il modo migliore per comprendere il mondo. Sulla bicicletta attraversa tutto il Tibet, unico straniero ad averlo fatto. Nel 2010 parte in tandem con un amico ipovedente per l’esperienza più dura della sua vita. Viaggiano dall’Italia fino all’Uzbekistan. Ritorna a casa dopo 5 mesi e sente già il bisogno di ripartire. Riprende la bicicletta e pedala dalla Patagonia fino al Venezuela. Dino non si ferma più. Da Panama raggiunge Vancouver. Nel 2014 l’Africa lo chiama, lui risponde. Dall’Etiopia raggiunge Cape Town, in Sud Africa. Nel 2017 decide di partire per un viaggio impossibile: la Siberia, in inverno. Con temperature che raggiungono anche i -60°, Dino percorre 17.000 km stando sulla sella per ben 11 mesi. Oggi ha aperto un’agenzia di viaggi, con cui accompagna i cicloviaggiatori a vivere le sue emozioni.

Memento Mori

Quando ho iniziato a lavorare come progettista meccanico, avevo 20 anni. Ero spensierato, avevo un buono stipendio, il weekend andavo in discoteca con gli amici e gli obiettivi che avevo nella mia vita erano di comprarmi una bella macchina e trovarmi una fidanzata. Non avevo particolari passioni. Non amavo leggere o fare sport. Poi, improvvisamente, tutto è cambiato. Al di là della strada dove lavoravo, c’era un cimitero. La vista del mio ufficio dava proprio su di esso e spesso mi capitava di assistere alle cerimonie funebri. La visione così vicina, distante appena qualche metro, della morte fece scattare qualcosa in me. Divenni, involontariamente, un assiduo spettatore della fine. Dopo pochi mesi, andai in crisi. La vita che fino a quel momento conducevo aveva iniziato a starmi stretta. Il pensiero costante della morte rimbombava nella mia testa. Non volevo più vivere nella mia monotonia. Sentivo costantemente lo scorrere del tempo e non mi sentivo più vivo. Avevo bisogno di nuovi stimoli, di vivere nuove avventure, di provare a dilatare il tempo per sconfiggere il suo inesorabile trascorrere. Nell’arco di sei giorni, lasciai il mio lavoro. Abbandonai uno stipendio sicuro, presi uno zaino e partii per il Messico alla ricerca delle risposte alle domande della vita. Semplicemente, forse, me ne andai per ritrovare me stesso. Il motore dell’inizio del mio viaggio è stata la paura di morire.

L’impermanenza: alla ricerca del senso della vita

Trascinato dalle note della canzone di Vasco “Vado al massimo”, in sud America cominciò a nascere in me una forte curiosità verso il prossimo. Conobbi molte persone, ognuno con la propria storia. Abbracciare una cultura diversa dalla mia via, mi aprì gli occhi. Ogni giorno parlavo con tanta gente diversa, ed ecco che in quel momento mi sembrava che il tempo si dilatasse. In 24 ore vivevo molto più intensamente rispetto a quando ero a casa. Mi chiedevo spesso che senso avesse fare la stessa cosa tutti i giorni, quando in ogni momento si possono vivere avventure o conoscere persone che possono davvero arricchirci. Nei primi anni dei miei viaggi ho cercato le risposte della vita. Ho incontrato sciamani e filosofi, ma nessuno è riuscito veramente a darmi quello che stavo cercando. Fino a quando non sono stato ad un passo dalla morte. Mi trovavo in Perù e stavo cercando di fare surf nel Pacifico, però persi il controllo della tavola e le acque del mare mi stavano risucchiando. A salvarmi è stata un giovane ragazza colombiana, di cui mi innamorai. Abbiamo vissuto in Cile insieme un periodo e anche a lei posi una fatidica domanda: “Perchè muoriamo?”. Nella sua risposta trovai quello che nemmeno Osho in India riuscì a dirmi. “Muoriamo perché sennò non sarebbe così bello vivere”, queste sono state le sue parole. Mi resi conto che quando sappiamo di avere una scadenza, iniziamo davvero a dare valore a ciò che facciamo. Da quel giorno non mi preoccupai più della destinazione, ma solamente del viaggio.

Dalla vetta alla libertà della bicicletta

Dopo queste avventure alla ricerca di risposte, nel 2003 mi feci rapire dalla montagna. L’anno successivo conobbi degli scalatori e iniziai quella disciplina anch’io, senza averlo mai fatto prima. Nonostante questo, mi buttai e feci anche delle spedizioni importanti come l’Ojos del Salado (6891m) in Cile. In queste avventure, che mi hanno portato nei campi base dell’Everest, mi resi conto che quello che mi incuriosiva maggiormente era conoscere e scoprire la vita degli Sherpa, le guide dell’Himalaya nepalesi. Fare la guida nei campi base mi permise di capire che quello che stavo veramente cercando non si trovava in cima ad una montagna, ma a rasoterra. Ripresi quindi il mio viaggio e andai in India. Qui incontrai una ragazza alpinista che viaggiava in bici, io non ne avevo mai avuta una. Decisi di farmene regalare una anch’io. Tornato in Italia mi presero una bici da 50 euro. Subito dopo, senza pensarci due volte, presi un biglietto aereo per il posto più economico che trovai: Bangkok, in Thailandia. Ed ecco che senza essere mai andato in bicicletta, cominciai a pedalare. Mi accorsi che era molto più semplice ed economico rispetto a scalare le montagne e soprattutto in un giorno riuscivo ad incontrare molte più persone. Non scesi mai più dal sellino della bicicletta per viaggiare.

Riccardo Magagna

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