57 km, pozzanghere di fango e dislivelli fastidiosi. Ma anche sole, “del verde tutt’intorno” (come canta Calcutta) e un buon bicchiere di Tai Rosso. Non posso negare che, per mia sorpresa, questo debutto è stato meno traumatico di quanto immaginassi.
Andiamo con ordine: domenica scorsa, 5 maggio, si è tenuta l’Aquila Gravel, manifestazione cicloturistica organizzata dalla famiglia di Cicli Liotto, nonché prescelta per il mio “battesimo del fuoco”.
Dalla teoria alla pratica
L’appuntamento di Liotto è stato un po’ la chiusura di un cerchio, l’apogeo di un’esperienza che è iniziata quasi per gioco, per dimostrare che sì, il gravel può essere davvero per tutti, anche per le pigre come me.
Quando mi è stato proposto questo progetto, e menzionata la possibilità di dover affrontare, ad un certo punto, un evento in prima persona, l’idea mi faceva ridere e allo stesso tempo mi intimoriva. Ho sempre preferito raccontare le avventure altrui dalla comodità del mio ufficio e della mia comfort zone, come quando si dice “bellissimi i bambini piccoli, se sono degli altri”. Quindi ho accettato, cercando di riporre il pensiero dell’evento in una scatola e lanciarla nell’angolo più remoto del dimenticatoio.
Nel frattempo le cose proseguivano. Prima la visita biomeccanica, poi l’incontro con la mia Gravel Alu, fino alla sfida dei pedali da professionista: tutto era a scopo puramente giornalistico, per comunicare a voi lettori e lettrici le tappe del percorso di una neofita. Eppure pian piano, una pedalata del weekend dopo l’altra, iniziavo a prenderci la mano.
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Specola non ti temo (più)
Per quanto mi stessi abituando all’idea, mai avrei pensato che, dopo soli quattro mesi in sella, sarei riuscita a pedalare per svariati km, su sassi, erba alta e fango ancora bagnato, senza finire a terra (spoiler, è accaduto comunque anche in questa occasione, ma sull’asfalto). E vi dirò di più: nonostante l’alzataccia e la fatica sulle gambe man mano che accumulavo terreno, posso dire che all’Aquila Gravel mi sono addirittura divertita.
Ovviamente, dei tre percorsi proposti dagli organizzatori, ho optato per lo Specola: 57 km e 280 metri di dislivello. Un corto che, visto attraverso i miei occhi, sembrava un’impresa eroica e, invece, mi ha fatto capire meglio perché il cicloturismo sia così tanto amato e seguito: buon cibo, bei paesaggi, e tante chiacchiere e pensieri da condividere con persone simili a noi.
Già di primo mattino, le rive del Lago di Fimon si sono velocemente riempite di appassionati e professionisti delle due ruote, chi dopo aver viaggiato poche manciate di km, chi arrivando da un’altra regione o addirittura un continente lontano, come l’America. Io e Roberto, il collega che mi ha accompagnata per scattarmi qualche foto, nonché prezioso supporto morale, abbiamo ritirato il pacco gara e ci siamo avvicinati alla partenza dove ad attendere lo start c’erano circa duecento persone, tra ciclisti e cicliste.
Bello pedalare, ma con un calice di vino è meglio
Era tutto reale: stavo davvero per partecipare ad una manifestazione cicloturistica, e il punto è che se una parte di me voleva solo tornare a casa a dormire, l’altra era elettrizzata dall’idea di mettersi alla prova. Col senno di poi devo dire che i km davvero sofferti sono stati quelli iniziali. Tutti e tre i percorsi prima di dividersi, infatti, dovevano attraversare un tratto in ombra dal fondo particolarmente impegnativo a causa del fango e dei sassi bagnati. Per non parlare delle salite e discese che si intercambiavano rendendo difficile il controllo della bici. Potete ben immaginare il mood con cui ho attraversato questa parte: alla prima rampetta avrei voluto girare la mia gravel e abbandonare tutto e tutti.
Poi, però, qualcosa mi ha spinta a non mollare: sicuramente la testardaggine di ferro che mi contraddistingue, ma ancor di più il pensiero del ristoro. I 40 km che ci distanziavano dal pit stop adibito sono letteralmente volati, non senza piccoli imprevisti, come una caduta (stupidissima, davanti ad un semaforo rosso) e vari cambi di rotta. Le mie gambe avevano davvero preso il ritmo, proseguendo quasi da sole – alla faccia della me che pensava fossero solo chiacchiere da ciclista invasato – in coda a Roberto che, come potete vedere, si è divertito a riprendere il mio entusiasmo o le mie espressioni di fatica con la GoPro.
Ad un certo punto, finalmente, l’apparizione: la Cantina Costalunga, a Castegnero. Il sole aveva iniziato a picchiare e abbiamo approfittato ben volentieri di 10 minuti di pausa per mangiare qualcosa e bere un bicchiere di Coca Cola o un assaggio dei vini di casa (fra cui, appunto, un freschissimo Tai Rosso davvero delizioso, tipico dei Colli Berici che ha la particolarità di venire servito intorno ai 15-16°). Recuperate le energie ci siamo rimessi in sella, questa volta più faticosamente, per affrontare l’ultimo terzo di percorso. Tra una salita conquistata sulla sella e un’altra così ripida da dover smontare e accompagnare la bici a mano, abbiamo velocemente concluso l’anello.
Ecco, frenate ogni ulteriore entusiasmo: ci saranno state massimo dieci, quindici persone dietro di noi, quindi nessun sorprendente podio o svolta epica. Quello che conta, però, è che con il mio (lento) ritmo io abbia portato a termine la missione, facendo ricredere, in primis, la mia parte più scettica. Non posso che confermarlo, e dopo questa avventura ne avete la prova effettiva: la gravel è una bici davvero per tutti.
P.s.
Vi dico un segreto, se ci sarà l’occasione, mi iscrivo nuovamente anche io.
Stay tuned!